Immaginate di poter raggiungere Marte in metà del tempo o di fare un viaggio fino a Saturno e le sue lune in soli due anni invece di otto: questa prospettiva entusiasmante è ora un passo più vicina alla realizzazione grazie alla costruzione del più grande motore a fusione nucleare per razzi mai realizzato.

Il progetto portato avanti da Pulsar Fusion a Bletchley, nel Regno Unito, prevede un razzo che dovrebbe vedere la luce nel 2027. Come potete immaginare, replicare le condizioni del Sole all'interno di un razzo non è un compito semplice; il cuore della propulsione a fusione nucleare è un plasma ultra-caldo intrappolato all'interno di un campo elettromagnetico.

"La difficoltà sta nell'apprendere come contenere e confinare il plasma super-caldo all'interno di un campo elettromagnetico", spiega James Lambert, CFO di Pulsar Fusion. "Il plasma si comporta come un sistema meteorologico in termini di imprevedibilità con tecniche convenzionali."

Pulsar Fusion si è associata a Princeton Satellite Systems negli Stati Uniti per utilizzare algoritmi di supercomputer capaci di prevedere meglio il comportamento del plasma.

Se gli scienziati riusciranno a far funzionare tutto come previsto, la camera raggiungerà temperature di diverse centinaia di milioni di gradi, rendendola più calda del Sole. L'energia in eccesso rilasciata potrebbe potenzialmente spingere i razzi a velocità di 800.000 chilometri all'ora.

Il tipo di motore di cui stiamo parlando qui è un Direct Fusion Drive (DFD), in cui le particelle cariche creano spinta direttamente, piuttosto che convertirsi in elettricità.

Quali sono i tre tipi di motore per la propulsione nucleare

Propulsione nucleare

È il tipo di propulsione su cui la NASA ha deciso di puntare per l’esplorazione umana di Marte. Questi motori non producono una spinta sufficiente per sollevare carichi importanti decollando da Terra, ma una volta nello spazio permettono di accelerare un’astronave ad alta velocità, con un rapporto tra carburante consumato e spinta ottenuta molto più vantaggioso di quello dei propulsori chimici dei razzi tradizionali.

I propulsori chimici si basano infatti su una reazione tra un carburante (che può essere solido o liquido) e un ossidante, per produrre un gas ad alta temperatura e alta pressione all’interno di una camera di combustione, da cui viene espulso attraverso un ugello per generare la spinta.

Il processo produce una spinta potente, ma necessita di molto propellente per funzionare - propellente che appesantisce le astronavi e ne limita le possibilità di azione. Un motore termico nucleare è più vantaggioso per lunghe missioni come quella verso Marte. 

Sfrutta infatti un reattore a fissione per scaldare un fluido (come l’idrogeno liquido) e produrre così il gas ad alta temperatura che verrà espulso dall’ugello della camera di combustione. Rispetto ai razzi a propulsione chimica ha un’efficienza due volte maggiore, e si calcola che potrebbe portare un equipaggio umano sul pianeta rosso in appena tre mesi, il minimo tempo possibile per un simile viaggio, contro i sette/nove mesi che impiegherebbe un razzo tradizionale.

La Nasa ha di recente investito 14 milioni di dollari per incentivare lo sviluppo di un prototipo da testare in orbita. Limiti tecnologici particolari per lo sviluppo di questo genere di propulsione non dovrebbero esistere, e quindi è probabile che i primi astronauti che metteranno piede su Marte arriveranno sul pianeta rosso a bordo di un razzo termico nucleare.

Propulsione al plasma

Un altro tipo di propulsione che potrebbe essere rivoluzionata nei prossimi anni è quella dei motori al plasma: propulsori elettrici che generano la spinta facendo fuoriuscire dagli ugelli un gas ionizzato (plasma appunto) accelerato da campi elettromagnetici. È una tecnologia già utilizzata per manovrare sonde e satelliti, che produce però una spinta molto inferiore a quella possibile con un razzo chimico (o nucleare), ma anche molto più efficiente.

Una ricercatrice di Princeton di recente ha proposto un nuovo design per questo genere di propulsori, che promette di renderli 10 volte più veloci di quelli attuali.

Il suo nome è Fatima Ebrahimi, e di norma lavora allo sviluppo dei tomakak: dispositivi che permettono di contenere il plasma all’interno di un campo magnetico toroidale, utilizzati nello sviluppo dei reattori a fusione nucleare. Studiando questi dispositivi, Ebrahimi racconta di aver notato una somiglianza intrigante tra i gas di scarico delle automobili, e le particelle emesse dal National Spherical Torus Experiment, un prototipo di reattore a fusione a confinamento magnetico sviluppato a Princeton.

“Quando è in funzione – spiega Ebrahimi – il nostro tomakak produce bolle magnetiche, chiamate plasmoidi, che si muovono ad una velocità di circa 20 chilometri al secondo.”

Imbrigliando la spinta prodotta da questi plasmoidi, Ebrahimi ritiene che si potrebbe costruire un propulsore al plasma con prestazioni infinitamente superiori a quelli attuali. Ed è esattamente quello che ha descritto in uno studio pubblicato lo scorso dicembre: un nuovo modello di motore al plasma, 10 volte più veloce, perfettamente manovrabile, e che può essere alimentato teoricamente con qualunque tipo di gas.

Propulsori ionici

Simili ai propulsori al plasma, i propulsori ionici sono propulsori elettrici in cui la spinta è prodotta a partire dall’accelerazione di ioni. Attualmente il propellente più utilizzato a questo scopo è lo xeno, un gas nobile raro (nell’atmosfera è presente in una concentrazione inferiore a una parte per 10 milioni) ed estremamente costoso. 

Si prevede che la crescita del settore aerospaziale porterà al lancio di oltre 24mila satelliti nell’arco dei prossimi 10 anni, e che la richiesta di xeno per manovrare una simile flotta supererà ampiamente le possibilità produttive attuali.

Molti gruppi di ricerca stanno quindi lavorando per trovare un’alternativa: un propulsore ionico che utilizzi un altro gas come propellente e garantisca così la sostenibilità del comparto aerospaziale nei prossimi decenni. Uno studio appena pubblicato su Nature potrebbe offrire la soluzione.

I ricercatori dell’azienda francese ThrustMe descrivono infatti un nuovo tipo di propulsore ionico alimentato a iodio, che è stato sperimentato con successo in orbita per manovrare un piccolo satellite. I vantaggi rispetto ai propulsori a xeno sono parecchi: lo iodio è più economico, può essere conservato in forma solida (mentre lo xeno va conservato ad alta pressione). 

Il propulsore a iodio inoltre può essere miniaturizzato, particolare che apre le porte a molte nuove possibilità sia nelle missioni di esplorazione spaziale, sia per l’utilizzo commerciale: i satelliti del futuro, ad esempio, potrebbero essere equipaggiati con propulsori miniaturizzati pensati unicamente per le operazioni di autodistruzione al termine del loro periodo di utilizzo, una caratteristica fondamentale per porre rimedio al crescente problema dell’inquinamento spaziale.